Rembrandt, Il cantico di Simeone, 1668-1669 (Stoccolma)
Thomas Stearn Eliot
Il cantico di Simeone
Signore, i giacinti romani fioriscono nei vasi
e il sole d’inverno rade i colli nevicati:
la stagione ostinata si ferma.
La mia vita è leggera, in attesa del vento di morte,
come piuma sul dorso della mia mano.
La polvere nel sole e la memoria negli angoli
attendono il vento che gela verso la terra morta.
Concedici la pace.
Per molti anni camminai in questa città,
osservai fede e digiuno, e al povero provvidi,
ho dato e avuto onori ed agi.
Chi giunse alla mia porta non fu mai respinto.
Chi si ricorderà della mia casa, dove vivranno i figli dei miei figli,
quando verrà il tempo del dolore?
Prenderanno il sentiero della capra, e la tana della volpe,
fuggendo i volti stranieri e le spade straniere.
Prima che venga il tempo di corde verghe e lamenti
concedici la pace.
Prima delle stazioni della montagna di desolazione,
prima dell’ora certa del dolore materno,
ora in questa stagione di nascita e di morte,
possa il Figliuolo, il Verbo non pronunciante e ancora non pronunciato,
accordare la consolazione d’Israele
a un uomo di ottant’anni e che non ha domani.
Secondo la tua parola.
Soffrirà chi Ti loda a ogni generazione
con gloria e derisione,
luce su luce, salendo la scala dei santi.
Non per me il martirio, l’estasi del pensiero e della preghiera,
non per me la visione estrema.
Concedici la pace.
(E una spada trafiggerà il cuore,
finanche a Te).
Sono stanco della mia vita e della vita di quelli che verranno,
muoio della mia morte e della morte di quelli che verranno.
Fa’ che il tuo servo parta
avendo visto la tua salvezza.
Parla l’anziano, il vegliardo Simeone, parla nel Tempio di Gerusalemme davanti al Bambino che viene presentato da Maria al sacerdote per la Purificazione. Simeone è una colomba trafitta dalla luce di Dio e che vuole fuggire, nascondersi nell’ombra, e chiede di essere congedato dalla vita. Lo chiede a Jahvè, il Signore, il Dio d’Israele. La luce che lo trafigge è la sua stessa vita luminosa come una lampadina giunta al massimo dell’incandescenza, giunta alla fine. Una vita che attende, come un fiore nei tiepidi inverni romani, nei vasi dei giacinti fioriti, che Gesù – vero Fiore – si manifesti. Simeone attende che il vento della morte se lo porti via come una piuma sulla mano. E chiede pace, invoca pace in nome di tutto ciò che ha fatto per guadagnare quella pace: la sua fede, i digiuni, l’elemosina al povero. Da ospitante a profugo, come il suo popolo che “prenderà il sentiero della capra”. E si domanda: chi si ricorderà di me quando le stanze della mia casa rimarranno vuote, si ricorderanno di me i figli e i figli dei figli? Prima che venga il tempo del dolore per questo Bambino, che da adulto salirà sulla croce, chi consolerà il popolo d’Israele? Simeone chiede che tutto ciò gli sia risparmiato, che sia lasciato andare prima che tutto ciò avvenga. E, come in visione, vede una scala di luce salire in cielo, la scala di Giacobbe, la scala dei santi, ma sa che non è per lui a cui basta essere congedato dalla vita. Né santo né martire né asceta. Solo un vecchio stanco di vivere che chiude gli occhi dopo aver visto quel Bambino, che assomiglia al fiore di giacinto nel cuore dell’inverno romano, prima che la primavera, il “terribile aprile” della Passione di Cristo, cali con le sue gemme aguzze sul ramo ritorto del tempo.