Giampiero Pizzol - Matteo ragioniere di Dio - (Mimep-Docete) - novembre 2014
Chi è il vero san Matteo di Caravaggio?
(ovvero, cinque personaggi in cerca d’Autore)
L’Autore è Cristo che, con la sua luce, va a cercare l’uomo nel suburbio della Roma del Cinquecento come nella Palestina dominata dai Romani. I cinque personaggi in cerca d’Autore sono quelli che nel quadro Vocazione di Matteo (Roma, Cappella Contarelli) siedono intorno al banco dove si ricevono le tasse. Tra di loro c’è l’ebreo Matteo-Levi, pubblicano, esattore delle imposte per conto dei Romani, e quindi disprezzato e odiato dal suo stesso popolo. E in quest’aria di bisca clandestina, come ce n’erano tante nella Roma dei tempi di Caravaggio, irrompe Gesù accompagnato dall’apostolo Pietro.
Accanto a questa tela, che si trova a Roma, nella cappella Contarelli della chiesa di san Luigi dei Francesi, completano il ciclo dedicato a san Matteo altre due tele di Caravaggio: Matteo e l’Angelo e Martirio di Matteo. L’opera fu commissionata a Caravaggio il 23 luglio del 1599 da parte del futuro cardinale Matheiu Cointrel, in vista dell’Anno Santo del 1600.
Gesù chiama Matteo con una sola, semplice parola: “Seguimi”. E, come raccontano i tre Vangeli sinottici (Mt 9,9; Mc 2,14; Lc 5,28), Matteo si alza, lascia tutto e segue Gesù. Caravaggio avrebbe potuto rappresentare la scena in modo enfatico. Invece ferma sulla tela l’istante stesso della chiamata, quando tutto ancora (come nel film Sliding doors) potrebbe o non potrebbe accadere, e il destino di Matteo compiersi in un modo o nell’altro.
Caravaggio costruisce la sua macchina scenica a partire dal gesto stesso di Gesù che, con il braccio alzato e la mano destra tesa, chiama Matteo alla sua sequela. Un fascio di luce entra nella stanza e sorprende i cinque personaggi seduti intorno ad una tavola su cui si trovano il registro delle imposte, il calamaio dell’inchiostro, le penne e i denari appena riscossi. I cinque, tre giovani e due anziani, sono vestiti con abiti della Roma del Cinquecento, mentre Gesù e l’apostolo Pietro che l’accompagna portano i panni dei pescatori della Galilea.
Quel raggio di luce che penetra prepotente nella stanza in penombra richiama il Prologo del Vangelo di Giovanni: “La luce venne nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. A chi l’ha accolta però ha dato il potere di diventare figlio di Dio”. Lo sfondo del dipinto è semplicissimo, un semplice muro sgretolato, più adatto a un monologo testoriano che a una sceneggiata napoletana. Su quel muro si apre una finestra dalle imposte scostate che proietta a sinistra di chi guarda una lunga ombra, mentre a destra lascia filtrare una luce radiosa e intensa che si unisce a quella che taglia in diagonale la scena, dall’alto verso il basso e da destra verso sinistra. La diagonale di luce porta al volto del’uomo che la critica classica da sempre attribuisce a Matteo, il personaggio barbuto seduto al centro del tavolo. Alla sua destra, indifferente a Gesù, un giovane chino sul banco conta le monete e dietro di lui un anziano si aggiusta gli occhiali per controllare meglio i denari.
Sembrerebbe così che solo Matteo e i due giovanotti elegantemente vestiti da figli della ricca borghesia romana si accorgano di Gesù. Eppure la luce raggiunge tutti i presenti, li trae dal buio, disegnando volti, corpi, braccia, gambe, mani, e accendendo i colori sgargianti dei loro vestiti. Davanti a quella luce – la luce rivelatrice della pittura di Caravaggio – quei cinque uomini appaiono come cinque personaggi perduti e in cerca dell’Autore, del Regista della loro vita, che li interpella e in qualche modo chiama ciascuno di loro, nella condizione in cui ciascuno di loro si trova, alla sua sequela.
Naturalmente la reazione di ciascuno è diversa. Uno dei due ragazzini col cappello piumato, quello seduto di spalle a cavalcioni di uno sgabello, è interpellato da san Pietro, che con la mano ripete il gesto stesso di Gesù. Attraverso la Chiesa, rappresentata da Pietro, Gesù raggiunge l’uomo contemporaneo. La prima reazione del ragazzo è di difesa. Il giovane corre con la mano alla spada. Il suo gesto, così come l’età e l’abbigliamento, lo fanno del tutto simile a uno dei Due bari che Caravaggio dipinse cinque anni prima (1594) e che ora si trova in un museo del Texas, il Kimbell Art Museum di Fort Worth. L’altro ragazzo di fronte, dal volto ingenuo e stupito, e che corrisponde all’ingannato nello stesso quadro dei Due bari, è sorpreso, curioso, forse un po’ spaventato ma anche attratto da Gesù, e si appoggia confidenzialmente con l’avambraccio sulla spalla del personaggio barbuto (Matteo?) al centro, per cercare in lui sicurezza.
Molti hanno fatto notare come la mano di Gesù ricordi il dito del Dio Creatore teso verso Adamo nella Cappella Sistina di Michelangelo. Cristo ridà la vita all’uomo che si è perduto nel buio del peccato, come ricorda sant’Agostino: “Se mirabile fu la creazione, tanto più grande fu la redenzione” . Nel quadro di Caravaggio, sopra la mano di Gesù, l’infisso in legno della finestra riproduce la forma della croce dividendo in due la scena: a destra Gesù e Pietro, a sinistra i cinque chiamati. “Se qualcuno mi vuole seguire, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Matteo 16:24). Se la croce è circondata da una luce dorata e soprannaturale, la stessa mano di Gesù sembra una lampada alzata ad illuminare la scena. Caravaggio ripeterà quello stesso gesto ri-creatore di Cristo nella sua Resurrezione di Lazzaro (Messina, Museo Regionale, 1608-1609).
Come si è detto, secondo la critica d’arte più accreditata – dal biografo ufficiale dell’epoca di Caravaggio, Pietro Bellori, fino agli storici d’arte di oggi – Matteo è il personaggio barbuto a centrotavola, con il cappello nero sulla testa, che alza la mano sinistra e con l’indice sembra indicare se stesso come a dire “Ehi, dici a me? Sono proprio io?”. Altri studiosi invece sostengono che quell’indice puntato indichi il giovane seduto a capotavola. Secondo questa nuova ipotesi san Matteo sarebbe quel giovane dal capo chino, tutto intento a contare i denari sul tavolo, e che non degna neppure di uno sguardo Gesù, mentre con la mano sinistra stringe nell’ombra un sacchetto di monete.
Interessante è il gioco delle mani tra l’uomo maturo e il ragazzo. La mano del più anziano si unisce a quella del giovane: la prima restituisce il denaro (confermando l’ipotesi che sia lui Matteo) o sta pagando il suo tributo al vero Matteo-esattore?
Caravaggio non lascia intendere chi dei due si alzerà per seguire Gesù: il vecchio o il giovane? La risposta sembra scontata guardando le altre due tele della cappella Contarelli: Matteo è lo stesso uomo barbuto e stempiato che nel secondo quadro scrive il Vangelo sotto dettatura di un angelo e che nella terza tela cade sotto i colpi di una spada e riceve dall’angelo la palma del martirio.
La figura del ragazzo a capotavola che conta i denari può richiamare piuttosto quella evangelica del giovane ricco che, anziché rinunciare a tutto per seguire Gesù, se ne va triste “perché aveva molti beni” (Matteo 19, 22) E se, dietro la figura di quel giovane a capotavola, così importante nella costruzione del quadro (si trova al vertice del cono d’ombra), Caravaggio avesse voluto nascondere un “secondo Matteo”, il suo alter ego, la sua controfigura, quello che Matteo avrebbe o non avrebbe potuto essere se avesse incontrato Gesù da ragazzo come il giovane ricco? Forse Matteo si sarebbe comportato come lui e se ne sarebbe andato triste a causa dei suoi molti beni?
E quale sarebbe stato il destino di quel giovane se, alzato lo sguardo, avesse seguito Gesù? La Sua luce lo illuminerebbe in pieno volto molto più di tutti gli altri presenti. Il quadro di Caravaggio tace. L’artista non ci vuole dire tutto. Si limita a sfiorare, con la luce meravigliosa della sua pittura, lo sguardo torvo di quel giovane, nascosto sotto i folti capelli. Vorrebbe accarezzarli, come farebbe Gesù. E anche noi vorremmo vedere quel volto rialzarsi alla luce e sorridere.