Nuovo allestimento del Museo del Duomo di Milano
“La cattedrale fu per secoli il pensiero dominante dei milanesi e l’Archivio ce ne dà la prova; tutte le vibrazioni della vita cittadina trovano un’eco in quelle carte”. Così scriveva Giovanni Verga agli inizi del Novecento, cogliendo tutta la ricchezza di un luogo come l’Archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano che riapre al pubblico in questi giorni insieme con il rinnovato Museo d’arte sacra della cattedrale. Le cifre dell’Archivio sono da primato: 500mila fascicoli, 40mila immagini, 9500 volumi. Disegni, fotografie, spartiti musicali, documenti (il più antico è del 1145), fatture e notule. Materiali che ci danno uno spaccato storico, economico e culturale di quell’avventura, durata 626 anni (1387– 2013), che è stata ed è tuttora la Fabbrica del Duomo. Cantiere infinito. Work in progress.
Nell’Archivio troviamo documenti preziosi, come la concessione da parte di Gian Galeazzo Visconti di “cavar marmo” nelle Cave di Candoglia (1387); la bolla di Bonifacio XI per il giubileo milanese del 1391; il pagamento a Leonardo da Vinci della somma di 56 lire per il progetto del tiburio del Duomo (1487); i codici musicali del maestro di cappella Franchino Gaffurio (1484). Ma anche semplici “note spesa”, delibere del Capitolo, donazioni, eredità e tutto ciò che riguarda la vita dell’antico ducato e poi della più moderna provincia milanese.
Accanto all’Archivio riapre così a Milano – a conclusione delle celebrazioni per il bimillenario dell’editto di Costantino – il Museo del Duomo, ospitato nella sede “laica” di Palazzo Reale. Un museo che si estende per ben 27 sale e che è stato fortemente ampliato nel numero dei reperti esposti rispetto al primitivo museo inaugurato dal cardinal Schuster nel 1956. Le sale 1. e 2. sono dedicate ai preziosi oggetti che costituirono un tempo il Tesoro del Duomo: vasi sacri, pissidi, ostensori, croci astili, tavolette per il bacio della pace, la grandiosa croce e l’evangeliario dell’arcivescovo milanese Ariberto d’Intimiano (XI secolo). Oggetti liturgici che sono ancora pronti per essere riutilizzati in qualche celebrazione solenne in cattedrale.
Il nuovo ingresso del Museo, dal portone principale di Palazzo Reale, favorisce la sua integrazione con il polo delle grandi mostre milanesi d’autunno (Pollok, Rodin, Il volto del 900). Così sacro e profano dialogano tra loro in una città come Milano dalla spiccata vocazione civile e religiosa. Usando le parole di un altro grande scrittore, Charles Peguy – “Ho visto nella mia infanzia impagliare le sedie esattamente con lo stesso spirito e lo stesso cuore e la stessa mano con cui quello stesso popolo aveva tagliato le sue cattedrali” – possiamo dire che a Milano la vita civile e religiosa fluisce dal medioevo ad oggi intorno al Duomo. L’edificio fu fortemente voluto, nella seconda metà del Trecento, dal vescovo Antonio da Saluzzo e dal duca Gian Galeazzo Visconti. E anche dal popolo milanese, poveri e i ricchi insieme, che finanziavano i lavori, mentre il “loro” Duomo saliva come preghiera di “pietre vive e scelte” tra le case di mattone.
Proprio Gian Galezzo fece la scelta coraggiosa di passare dall’umile mattone lombardo (che caratterizzava le cinque grandi basiliche romaniche di Milano) al più duttile e duraturo marmo, dalla rara e preziosa grana rosa e zuccherina, che si estrae dalle cave di Candoglia, concesse dal duca alla Fabbrica del Duomo. Quel marmo richiamò nel capoluogo lombardo maestranze da tutta Europa, costituendo un vero e proprio cantiere internazionale che durò oltre cinque secoli. I blocchi, contrassegnati con la sigla AUF (ad sum fabricae) viaggiavano sui barconi in un percorso d’acqua che si riversava dal Toce al lago Maggiore, dal Ticino al Naviglio fino al porto di Milano (lo specchio d’acqua che allora si trovava dietro il Duomo) grazie a un sistema di chiuse ideato da Leonardo da Vinci. Si calcola che dal 1386 per cinque secoli arrivarono sui barconi almeno 550 blocchi. Oggi i pezzi del Duomo che continuamente vengono sostituiti (sculture, capitelli, doccioni, guglie e gugliotti, fregi, ornamenti) fanno il viaggio inverso, su veloci furgoni, per essere riprodotti fedelmente “a pantografo” in nuovi blocchi di marmo da tecnici specializzati del laboratorio di Candoglia, ed essere poi ricollocati, come in un puzzle, nel corpo del Duomo, “pietre vive” che continuamente lo rinnovano.
Così nelle sale del Museo ritroviamo questi fragili e preziosi pezzi antichi che nei secoli sono stati sostituiti e raccontano l’evolversi della scultura europea. Non emergono per ora nomi di spicco, anche se il Museo e l’Archivio daranno forse l’occasione per gli studiosi di identificarli. Certo è che, dall’umile scalpellino al maestro di bottega, tutti si sentivano protagonisti. Così avveniva che anche i più piccoli particolari fossero “firmati” da anonimi ma abilissimi artigiani che lasciavano il loro segno nella forma di un animale, di un fiore, di un volto o di una maschera, in cima a un gugliotto, alla base di un archetto o nell’ombra di un capitello dove l’occhio non poteva arrivare.
Nel percorso del nuovo Museo, invece, possiamo scoprire questi particolari da vicino; al nostro sguardo la ricca e fantasiosa iconografia medioevale si rivela con i suoi mostri dalla fauci spalancate che si trasformano in doccioni, appoggiati sulle spalle di erculei giganti che sembrano appena usciti dalle fiabe di Gog e Magog. Ma è soprattutto l’infinita schiera dei santi, in statue di grandi medie e piccole dimensioni, a venirci incontro nelle forme sinuose del tardo gotico. Una folla di santi scolpita in tutti gli stili delle scuole locali: la borgognona, la renana, la boema, la campionese e la lombarda; l’affascinante e morbida scultura di età sforzesca, in cui il marmo sembra assumere le pieghettature della carta; la rinascenza lombardo; il classismo cinquecentesco; il neoclassico e il romanticismo ottocentesco (scapigliatura e stile floreale); fino al modernissimo segno lasciato da Minguzzi e Fontana sui modelli poi realizzati per le porte del Duomo.
Questa grande lezione di storia dell’arte può essere studiata e meditata nel grande libro aperto del Museo. Scopriremo strane falene aggrappate ai capitelli, colonne pensili con cherubini dalle sei ali che sembrano cariatidi greche o babilonesi, volti di divinità solari, animali di un strano medioevo fantastico. Mostri fatti apposta per impaurire e far fuggire i demòni, esorcizzando le paure degli uomini, ma che si rivelano impotenti davanti a Satana accovacciato ai piedi della statua di Giobbe, cane rabbioso che mette alla prova la paziente fede del santo.
Se il Duomo ci fa alzare (e girare) la testa per identificare, magari in controluce e abbagliati dal sole, la sua ricca e complessa iconografia (una foresta di simboli, personaggi ed esseri animati), qui, nella penombra del Museo, tutto è a portata di sguardo. Facciamo esercizio visivo. Impariamo la statura morale dei santi. E nei monocromi del pittore Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, tradotti in terracotta e poi nel marmo sopra i portali del Duomo, ripassiamo la Bibbia e i suoi personaggi: Ester, Assuero, Giuditta, Oloferne, Salomone, la regina di Saba, Sisara e Giaele.
Alle vetrate recuperate dai crolli (soprattutto i bombardamenti di Milano del ‘45) e ricomposte nel Museo è dedicata una suggestiva sala che ci avvolge di luce: impariamo qui il linguaggio dei vetri colorati, stretti nelle nere piombature; poi, dal vivo, possiamo provare a rileggere le storie bibliche ed evangeliche che affollano le immense vetrate del Duomo.
Man mano che la cattedrale cresceva nei secoli, come un organismo vivo e imprevedibile, i suoi costruttori ebbero bisogno di un riferimento visivo. Affidarono così nel 1519 a Bernardino Zenale la realizzazione di un modello in legno di tiglio e noce in scala uno a venti che divenne punto di riferimento per le successive modifiche. Il percorso museale dedica a questo cosiddetto “modellone” un’intera sala che ci presenta fedelmente abisde transetto e tiburio nella versione attuale, mentre la facciata misura l’enorme distanza tra il progetto cinquecentesco e la sua realizzazione sette-ottocentesca che tutti conosciamo. Anche Napoleone (che fu incoronato in Duomo) volle essere rappresentato sulle guglie, inventandosi “santo” tra i santi veri. Segno però che anche un uomo come lui, “due volte nella polvere, due volte sull’altar” (Manzoni, Il cinque maggio), ci teneva comunque al suo posto in cima al Duomo.