L'Osservatore Romano - 10 aprile 2015
In cerca della Madre
Centocinquanta reperti esposti a Parma.
In principio stava la Madre. A Parma si è aperta una mostra sugli archetipi della maternità, dalle statuette votive delle antiche civiltà mediterranee alle Madonne con Bambino rinascimentali. Dalle intense Pietà del Cinquecento fino alle “invenzioni” del Novecento, in cui l’immagine della donna e della famiglia si laicizza (Felice Casorati, Gino Severini). E, per reazione, artisti contemporanei come Alberto Giacometti, Francesco Messina, Lucio Fontana, con le loro immagini neo-arcaiche e fortemente evocative, sentono il bisogno di ritrovare la sacralità primitiva dell’immagine della donna e della madre.
Un bisogno, questo di tornare all’origine del significato della maternità, che corrisponde alla nostra sensibilità post-moderna. La mostra Mater. Percorsi simbolici sulla maternità, aperta fino al 28 giugno al palazzo del Governatore, affronta attraverso oltre 150 reperti i tanti significati che l’icona della madre ha assunto nei millenni: dea della fecondità e della terra, divinità che assiste la donna che partorisce e allatta, matrona che sta all’origine della famiglia e della società latina (la mater familias romana), Madre di Dio nella civiltà cristiana (della misericordia, consolatrice, regina,in maestà).
Dal paleolitico all’età del ferro e del bronzo affiorano nella mostra di Parma le più svariate immagini di divinità femminili (da Cipro, Taranto, Aquileia) tra cui l’interessante tipologia delle Matres Matutae di Capua. È il caso di un bassorilievo in tufo del IV sec. a. C che rappresenta una madre seduta con in braccio cinque neonati avvolti in fasce: il reperto veniva esposto come ex voto nel santuario di Capua davanti alla dea delle partorienti per chiedere la sua protezione.
Le immagini propiziatorie di divinità sedute con il bambino sulle ginocchia o tra le braccia mentre allattano ci introducono alle immagini votive cristiane delle tante Madonne con il Bambino dei nostri santuari mariani. Davanti all’icona della Madonna del latte (galaktofusa) pregavano intere generazioni di spose per chiedere il dono della maternità e dell’allattamento. Ottenuta la grazia, le donne portavano davanti alla Madonna i loro ex voto, così come, parallelamente, in ambito pagano, venivano portate al santuario della dea statuette fittili a grandezza naturale di bambini in fasce (dalle Puglie del III e II secolo a. C.) e anche mammelle votive.
L’immagine e il modello della donna cristiana è Maria. A Lei ci si rivolge per ottenere il dono della maternità. In Lei il mistero della verginità e della maternità si uniscono in una straordinaria fecondità: Vergine e Madre, Figlia del Tuo Figlio (Dante, Paradiso, canto XXXIII,1). Nell’abbraccio tra la Madre e il Figlio accade qualcosa di speciale, cielo e terra si uniscono.
La mostra ci riporta ai momenti lieti della vita di Maria. All’Annunciazione, quando tutto comincia in lei, sorpresa dall’angelo nella prospettiva di un bel colonnato rinascimentale (per esempio, nella tempera su tavola di Luca Signorelli, 1491). Poi la presenta affacciata al davanzale con il figlio, giovane e bella madre nell’affresco del Pinturicchio conservato in Vaticano. O ancora signora dal lungo collo di cigno, in Maestà, assisa su un trono gotico e circondata dagli angeli, il figlio benedicente in piedi sulle ginocchia (Stefano d’Antonio di Vanni, sec. XV). Bernardino Luini dipinge una leonardesca Madonna del latte (fine XV sec.) e Moretto da Brescia una Madonna con Bambino che gioca (XV sec.).
Nell’abbraccio tra la Madre e il Bambino delle varie icone cretesi e veneziane esposte a Parma c’è però già il presentimento della dolorosa Passione che il Figlio dovrà subire sulla croce. Maternità che in filigrana sono già delle piccole Pietà. Se nelle immagini egiziane di Iside che allatta Horo, o della Dea Nut che accoglie nel suo grembo l’anima (dipinta a colori sul fondo di un sarcofago egizio), o ancora nel sarcofago greco con la madre defunta circondata dai parenti il tema della morte si affaccia timidamente, nelle icone di Maria con il Bambino il presentimento del futuro dolore della madre per il figlio morto diventa dolore universale di tutte le madri. Nella Madonna del latte con Crocifissione di Ambrogio di Baldese, (tempera su tavola, 1380-1385) è addirittura l’immagine della Crocifissione a fare da sfondo al dolce momento dell’allattamento. La Madonna sa che dovrà perdere il suo Gesù. E, come ogni madre al mondo, non vorrebbe mai vedere seppellire il frutto del suo grembo. Nelle immagini della Pietà, in cui la profezia di Simeone si avvera (Anche a te una spada ti trafiggerà l’anima) la storia dell’iconografia della maternità tocca il suo vertice. La tempera su tavola di Francesco Neri da Volterra e le due tele del Correggio e del Campi sono altrettante tre vere e proprie illustrazioni della laude Stabat Mater di Jacopone da Todi. Quel Figlio è Dio. Eppure totalmente uomo, nato dal seno di quella donna. Dio e uomo. Morto. Totalmente affidato all’abbraccio di una Donna.
Liberata dal velo del romanticismo, nel Novecento la maternità si laicizza. Imborghesisce. Sulla famiglia si accende la luce artificiale della modernità. Il neon della pittura di Felice Casorati rischiara l’esistenza della nuova coppia borghese con bambino, seduta in salotto attorno a un tavolino da té. E cosa scopriamo? Che il bimbo-marinaretto (un classico look infantile di quegli anni) è sulle ginocchia di un papà elegante con tanto di baffi, cravatta e colletto alto; mentre la mamma, dall’aria distaccata (potrebbe sembrare una cameriera se non fosse seduta) sta per versare il tè. Ma il papà non è un “mammo” e il bambino seduto sulle sue ginocchia avrà di certo una governante; non guarda il suo papà né tantomeno la mamma: guarda noi, è in posa per il quadretto familiare. In questa tela di Casorati, intitolata La famiglia Consolaro Girelli (1916), non c’è mistero. Tutto è lucido come le scarpe di vernice del bambino. È una famiglia che si specchia, si autocompiace di sé e del suo ruolo sociale.
La crisi dell’immagine della donna novecentesca è riassunta da Gustav Klimt nel segno della morte e della caducità del suo corpo. Nell’opera Tre età della donna (1905, Roma, Galleria Nazionale d’arte moderna), non esposta a Parma ma presente nel catalogo (ediz. L’Erma), attraverso la mano del grande pittore austriaco il tempo modella il corpo della donna dall’innocenza infantile alla fiorente e sensuale maternità, fino alla terribile deformità del corpo femminile vecchio. L’antico ordine si è rotto. Anche la dea-madre imbruttisce, muore e si corrompe. Michelangelo Pistoletto la rappresenta ancora come Venere, ma tra gli stracci (Venere degli stracci, cemento, mica e stracci, 1967). Tremendamente vicina alle cronache quotidiane l’immagine di Medea (70-79 a.C.) affresco su intonaco uscito dagli scavi di Ercolano. Medea, la maga che uccide i propri figli, rimanda alla grande tela Le cattive madri (olio su tela, 1804) di Giovanni Segantini, dove una donna lussuriosa e fluttuante nell’aria, avvinghiata per i capelli ai rami spogli di un albero in mezzo alla neve, cerca di liberarsi mentre tra i rami un neonato le succhia il seno in un groviglio macabro.
Dove sta la Madre oggi? La risposta si perde nel gioco infinito delle immagini e dei sensi che questa mostra ha proposto. Ma se ci fermiamo davanti alla Pietà con Madonna e San Francesco di Antonio Campi (olio su tela, 1575 ca.), proveniente dalla sala capitolare della cattedrale di Cremona, capiamo che il dolore di Maria sul figlio morto appartiene all’umanità intera. Così come nella statuetta in bronzo della Madre dell’ucciso (prima età del ferro), proveniente dal museo nazionale di Cagliari: lo stesso dolore in un reperto di età nuragica, eppure vicino alla nostra sensibilità contemporanea.