Famiglia Cristiana web - febbraio 2013
Quel pallio che unisce Benedetto e Celestino
Le dimissioni di papa Ratzinger gettano nuova luce sul suo gesto compiuto quattro anni fa a nella basilica di Collemaggio. Due grandi Papi della storia a confronto.
Quel pallio, simbolo del Buon pastore, poggiato con devozione da Benedetto XVI sull’urna di Celestino V il 28 aprile 2009 fu un presagio? Quattro anni fa papa Ratzinger, oggi dimissionario, intendeva con quel gesto entrare in una più profonda comunione di intenti con l’uomo che sette secoli fa, secondo Dante, “fece per viltà il gran rifiuto”? Ma Dante si sbagliava e il 5 maggio 1313 Clemente V avrebbe fatto santo quel Celestino V che il sommo poeta metteva all’inferno, ma di cui Francesco Petrarca scriveva: «il suo operato fu quello di uno spirito altissimo e libero, che non conosceva imposizioni, di uno spirito veramente divino».
A giudicare dall’insistenza con cui Benedetto XVI volle compiere – sotto le volte della pericolante basilica di Collemaggio colpita dal sisma abruzzese – quel gesto di omaggio del suo pallio (poi inserito nell’urna) oggi possiamo intuire come quel pallio rappresenti oggi, alla luce delle inattese dimissioni del Papa, l’anello di una lunga catena che salda il presente alla millenaria storia della Chiesa. Benedetto XVI oggi ripete nella sostanza quelle dimissioni compiute sette secoli prima, il 13 dicembre del 1294, da Celestino V. Fare un paragone tra i due papi può risultare inappropriato: la storia, gli uomini, le condizioni sono diversissime. Ma tra i sette papi che, compreso Benedetto XVI hanno scelto la strada delle dimissioni, quello più vicino è certamente Celestino V, l’eremita abruzzese sulla cattedra di san Piero di cui Ignazio Silone, marsicano, dedicò il suo romanzo L’avventura di un povero cristiano. Pietro dal Morrone avrebbe voluto ritornare, come del resto farà Benedetto XVI, a una vita tutta dedita alla preghiera nel suo eremo alle pendici del monte presso Sulmona. Ma il suo successore, papa Bonifacio VIII, lo fece catturare e lo tenne prigioniero fino alla morte, confinando sul monte Fumone, in Ciociaria.
Forse all’improvvisa notizia delle dimissioni ci siamo immaginati un Benedetto XVI che ritorna alla sua verde e ridente Baviera. Invece sappiamo che, dopo un periodo passato nella residenza estiva di Castel Gandolfo, Joseph Ratzinger, vescovo emerito della città di Roma, vivrà in Vaticano, nel convento femminile Mater Ecclesiae che egli ben conosce e dove ha celebrato varie volte la Messa. Vivrà in un monastero in piena regola al centro di Roma, al di là delle mura vaticane. Un monastero con l’orto e il giardino dove tra i fiori viene coltivata una varietà speciale di rosa che porta il nome di Giovanni Paolo II. Nella cappella del monastero, semplice e spartana, un crocifisso dello scultore Francesco Messina sarà, insieme all’Eucarestia, il suo centro affettivo. Finiti i restauri della zona a lui dedicata, Joseph Ratzinger si trasferirà dunque qui, a pochi passi dal suo successore che verrà eletto entro la prossima Pasqua. La giornata del futuro ex Papa sarà scandita dai ritmi della preghiera monastica, alternata allo studio, alla riflessione e dal necessario riposo. Consolato dai libri, potrà tornare di certo con più frequenza alla tastiera del suo pianoforte che non ha mai abbandonato, passione coltivata fin da bambino insieme al fratello Georg.
Possiamo dunque immaginare il futuro ex Papa eremita in Vaticano lontano dagli occhi del mondo ma radicato nel cuore più profondo e misterioso di quella Chiesa che ha sempre servito. Non sarà sceso dalla croce come ha scritto oggi ingiustamente un giornale laico. Anzi. Sarà nel cuore stesso del mistero pasquale che quest’anno celebrerà da mite e umile sacerdote, sull’esempio di Cristo, che ha detto: «Se il seme di frumento non muore non porta frutto».