Famiglia Cristiana n° 12 - marzo 2008
GIOVANNI BARONZIO, PITTORE RIMINESE DEL TRECENTO, RACCONTA LA PASSIONE DI GESù
CRISTO ME TRAE TUTTO TANTO è BELLO
Foto esclusive durante il restauro e una mostra a Palazzo Barberini a Roma. Commentano le immagini poeti e mistici: da Dante a Jacopone, da Rebora a Peguy.
-Cristo me trae tutto tanto è bello", scriveva agli inizi del Trecento il francescano Jacopone da Todi (1230/36-1306) in una delle sue laudi più belle, la 90. Infiammato e "ennamorato" tutto d'amore per Cristo, di cui desiderava ardentemente condividere la Passione, così che implorò Papa Bonifacio VIII non tanto di essere liberato dal carcere (occasione per lui di penitenza) quanto dalla scomunica che gravava sulla sua coscienza di credente.
Ma cosa c'è di bello in una persona che muore? Oggi noi uomini moderni, abituati a tenere lontano il pensiero della sofferenza e della morte, ci sentiamo a disagio davanti all'Uomo dei dolori del salmo 22 : -Ma io sono verme e non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo". E siamo anche noi come quelli che -storcono la bocca e scuotono il capo"; e si chiedono cos'abbia di attraente quell'uomo flagellato e coronato di spine che sta per morire in croce.
In effetti, anche nei primi secoli del cristianesimo si preferiva rappresentare Cristo trionfante e glorioso assiso sulla croce come su un trono regale. Sarà con la predicazione francescana, le sacre rappresentazioni e gli affreschi di Giotto che il grido straziante del Crocifisso entrerà di prepotenza nel mondo dell'arte; e, come un filo rosso, giungerà fino a noi ripreso dalla sensibilità di poeti come Peguy, Eliot, Rebora.
A questi autori affidiamo il commento delle due splendide tavole di Giovanni Baronzio - pittore riminese del Trecento seguace di Giotto - che pubblichiamo in queste pagine, fotografate per la prima volta in esclusiva per Famiglia cristiana durante il restauro. L'opera, un dossale d'altare commissionato al Baronzio dai francescani per la chiesa conventuale di Villa Verucchio (Rimini), è oggi visibile, insieme ad altre splendide tavole di scuola giottesca, al secondo piano di Palazzo Barberini, a Roma, in occasione della mostra Giovanni Baronzio e la pittura a Rimini nel Trecento, aperta fino al 15 giugno.
Come nel celeberrimo Stabat Mater di Jacopone da Todi, musicato da una schiera innumerevole di compositori (Pergolesi, Palestrina, Scarlatti, Haydn, Rossini, Dvorak...), la sequenza della Passione risuona scandita in 12 quadri che vanno dall'Ultima Cena alla Pentecoste. Dodici quadri o "stanze" in un racconto continuo, che possiamo immaginare accompagnato, come una lauda medioevale, dal ritmo di un tamburello, dal suono di un flauto o di un liuto .
Le figure dei protagonisti, attori del dramma sacro, si muovono nel suggestivo fondo oro, ritagliandosi un proprio spazio per cantare - come in un oratorio sacro - la propria parte in armonia con gli altri; le immagini s'allungano in forma gotiche coloratissime: note basse da pedaliera d'organo a scavare un commosso pianto funebre, e note acute da trombe di resurrezione. La pittura di Baronzio come musica: negli ultimi quadri il rigoglio primaverile esplode in cieli tersi e liberi in cui trionfano, al posto della croce, svolazzanti stendardi e angeli.
Così si resta stranamente rapiti dalla bellezza di queste tavole che evocano il drammatico cammino di Cristo dalla morte alla vita; e si capiscono le parole di Jacopone: -Cristo me trae tutto tanto è bello!". Ogni passo è accompagnato dalla presenza delle pie donne e di Maria, figure femminili composte come un bouquet di fiori: il rosso per la Maddalena, il blu notte per Maria, il rosa pesco e il verde prato per i manti delle altre due Marie. Quattro donne piegate dal dolore, avvizzite come fiori, ma che poi rinvengono nella frescura del mattino di Pasqua. Polifonia a quattro voci.
La freschezza tutta femminile della primavera fa da sfondo alla Passione di Cristo, in cui -morte e vita si affrontano in un prodigioso duello". Mentre la natura fiorisce, Cristo muore e risorge. Nella Terra desolata del poeta inglese T. E. Eliot (1888-1965) la primavera è colta in questa sua angosciosa e drammatica bellezza: -Aprile è il più crudele dei mesi, genera / lillà da terra morta, confondendo / memoria e desiderio, risvegliando / le radici sopite con la pioggia della primavera". E un altro poeta anglosassone, G. M. Hopkins (1844-1889), anglicano poi convertitosi al cattolicesimo e divenuto gesuita: -Generazioni hanno camminato, camminato, camminato; e tutto è arso dal traffico; consunto, macchiato dalla fatica. (...) E, malgrado tutto questo, natura non è mai esaurita: là, nel profondo delle cose, vive la più cara freschezza".
Questa "cara freschezza" che è dentro ciascuno di noi e che la natura risveglia è il tema della Pasqua. La poesia di Dante Alighieri, che come Cristo ha affrontato la Discesa agli inferi rappresentata da Baronzio nel decimo quadro, ci suggerisce il clima oscuro dell'oltretomba: l'"aer perso" e la "perduta gente". Eliot, nella sua Terra desolata, cita e riprende la visione dantesca sotto un cupo cielo londinese: -Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, / ch'io non avrei mai creduto che morte tanta n'avesse disfatta".
Dante, che nel suo viaggio ultraterreno è accompagnato dalla poesia di Virgilo, dalla bellezza di Beatrice e poi dalla santità di Maria, ci suggerisce le parole davanti al dodicesimo quadro della Pentecoste di Baronzio, dove Maria è assisa tra gli apostoli nel cenacolo: -Nel ventre tuo si raccese l'amore / per lo cui caldo ne l'etterna pace / così è germinato questo fiore" (Paradiso, canto XXXIII). Lo scrittore francese Charles Peguy (1873-1914) in Giovanna d'Arco descrive l'angoscia di Maria verso il calvario: -Da tre giorni la gente diceva: è invecchiata di dieci anni. / Seguiva, piangeva, non capiva molto bene. / Ma capiva molto bene che il governo era contro il suo ragazzo / Il governo e il popolo, che di solito non sono d'accordo".
E sotto i piedi della croce la poetessa contemporanea Elena Bono fissa una bellissima Maria Maddalena: -I soldati ridevano: / "Ehi, la bella dagli occhi rossi!" / Ma lei non la riuscirono a strappare / da quella croce, / che vi stava con l'unghie confitta, / singhiozzando senza voce".
Infine Clemente Rebora (1885-1957), sacerdote rosminiano e poeta, si immedesima in Gesù sofferente: -Solo calcai il torchio: / con me non era nessuno: / spreco di sangue, per tutti e per ciascuno; /... dell'invisibile amore, quaggiù, dell'incomprensibile amore di Gesù".