Famiglia Cristiana n° 16 - aprile 2005
LE OPERE DI WILLIAM G. CONGDON ESPOSTE AL MUSEO DIOCESANO DI MILANO
IL PITTORE CHE SI ARRESE A DIO
Sensibile e mistico, rinunciò a una brillante carriera per cercare un luogo in cui sentirsi a casa. Lo trovò nella Bassa Lombarda. E in quadri che evocano le icone bizantine.
Attraverso la pittura morire a sé stessi per risorgere in Cristo: così si potrebbe sintetizzare l"atto" stesso del dipingere di un grande pittore cristiano come William G. Congdon (per gli amici Bill). Americano di nascita, protestante di religione, William Cogdon è stato un artista che ha pellegrinato per il mondo in cerca di un luogo in cui trovare salvezza, in cui sentirsi a casa. Ha attraverso l'esperienza del dolore <USappunt>(volontario sulle ambulanze nella grande guerra, ritraeva i volti dei cadaveri); è stato pittore di successo dell'avanguardia new-yorkese (quell'action painting di Jackson Pollok e dell'amico Mark Rothko); corteggiato dalla critica, dai galleristi e dai grandi collezionisti (Peggy Guggenheim fu tra i suoi acquirenti), rifiutò ben presto quel mondo, che a sua volta lo dimenticò (la Garzantina ancora non lo cita!). Sarà il critico d'arte Giovanni Testori a indicarlo come uno degli artisti cristiani più grandi e sensibili del nostro secolo.
La sincerità totale e disarmante della sua arte coincideva infatti con la sua vita - "tutta la mia vita è stata un quadro" scriveva - e i suoi paesaggi coincidevano con la domanda esistenziale che il pittore si portava dentro: perché vivere? Dalle angosciose visioni di New York Congdon (che nasce nel 1912 a Providence, nel Rhode Island, e muore a Milano nel 1998) guardava, come tanti intellettuali di quegli anni, alla luce che sembrava venire da Oriente. Rivisiterà così in chiave mistica i monumenti del passato: san Marco e le chiese di Venezia, il Partenone di Atene, il Colosseo e i monumenti della Roma classica, le chiese della Napoli cattolica, i templi sacri dell'India, la stazione di Calcutta ingombra di corpi abbandonati, in sfacelo...
Nella città di san Francesco, Assisi, Congdon si arrenderà infine - come lui stesso scrisse una volta - a Dio e alla Chiesa cattolica.
Riceverà il battesimo nel 1959 e si fermerà per 17 anni presso la Pro Civitate Christiana; nei mesi estivi trasferendo il suo atelier a Subiaco, nell'eremo del beato Lorenzo. E continuando i suoi viaggi (Messico, Sahara, Parigi). L'incontro con il monachesimo benedettino lo porterà a scoprire, tra le risaie della Bassa lombarda, accanto ai monaci benedettini della Cascinazza, presso Guido Gambaredo, alle porte di Milano (dove si vive la radicalità dell'ora et labora), quello "sguardo della fede" che per un artista cristiano è tutto. E sentirà di essere arrivato finalmente a casa e vivrà gli ultimi vent'anni facendo memoria nella sua pittura del mistero incontrato: Cristo.
Dalla nebbia risorgono gli oggetti
Così scrive William Congdon nel fitto e denso diario di appunti e schizzi che accompagna la sua produzione artistica: "La superficie romantica di piazza san Marco, nel 1980, si apre e cade nel silenzio di un Oriente più profondo, quello che ho scoperto nei campi paludosi di riso della Bassa milanese, un nulla di natura... la nebbia mette a morte ogni oggetto e tutti gli oggetti risorgono nel denso offuscamento che è questo Volto (di Dio): la nebbia ardente".
Mai un pittore si era spinto tanto in là: bisogna tornare agli antichi monaci che dipingevano le loro sacre icone, dopo intense veglie di digiuno e di preghiera, obbedendo, nella ripetizione volontaria e felice, uno schema in cui la volontà soggettiva - la cosiddetta creatività moderna - è apparentemente annullata. Mortificata.
Il nero? La vera origine della luce
Ed ecco, per riprendere l'analogia con la pittura di icone, cosa scrive ancora Congdon: "Non amo ciò che dipingo - perché non dipingo nulla; amo solo lo stesso dipingere che è mio morire". Per questo l'artista americano non dipinge gli oggetti ma il loro rivivere attraverso quell'atto di annientamento di sé stesso che trasforma la pittura in gesto di mortificazione e ascesi cristiana: "Il nero per me è origine di luce. è la morte cristiana. Non è superficie. Io vivo il nero - perciò è sempre carico di luce".
In Congdon è dalla rinuncia all'oggetto che nasce l'immagine - l'icona appunto - che esprime la sua totale alterità, la sua totale appartenenza e legame al Mistero che fa il mondo e le cose. Analogia dell'icona è dunque il titolo azzecatissimo della grande mostra (70 opere dalla Fondazione William Congdon e da altre collezioni europee e americane) inaugurata al Museo diocesano di Milano e che rimarrà aperta fino al 29 maggio. Dopo una tappa estiva ad Assisi (dall'11 giugno al 23 agosto) la mostra si trasferirà a Vicenza, alle Gallerie di Palazzo Montanari (3 settembre - 13 novembre) dove si trova la più grande mostra permanente italiana di icone. Lì l'analogia tra l'arte di Congdon e l'icona risulterà evidente, palpabile, verificabile nel confronto diretto.
Il paesaggio della bassa milanese - con i suoi metafisici spazi e i pochi oggetti che la nebbia nasconde e poi, all'improvviso, rivela - è protagonista assoluto dell'ultimo Congdon. Qui finalmente l'artista trova la pace e i suoi soffertissimi Crocifissi (ne ha dipinti ben 180) si trasformano nel volto sereno e ricomposto di una campagna assolata, verdi campi di orzo attraversati dalla ferita serena e dolce di una strada che è la croce stessa senza più le braccia. E dove il capo di Cristo è caduto come un seme che fa germogliare la terra.