Famiglia Cristiana n° 38 - settembre 2005

REGGIO EMILIA E GUALTIERI RENDONO OMAGGIO A LIGUABUE

LO SCIAMANO DELL'ARTE

Si conferma l'interesse del pubblico per un autore che ha saputo esprimere il proprio disagio esistenziale in un linguaggio artistico comprensibile a tutti.

A quarant'anni dalla morte e con alle spalle un numero considerevole di mostre, romanzi e film (tra cui il cortometraggio Lo specchio la tigre e la pianura, Orso d'argento al festival di Berlino del 1961, e uno sceneggiato Rai del 1977 su soggetto di Cesare Zavattini), possiamo oggi gettare uno sguardo più lucido sulla vita e sull'opera di Antonio Ligabue. Un artista immediato e popolare che piace e interessa alla gente: 20.000 visitatori alla mostra Antonio Ligabue. Espressionista tragico (catalogo Skira) sono una buona notizia, che spinge gli organizzatori a prorogarne di un mese la chiusura, al 16 ottobre. Due le sedi espositive: il palazzo Bentivoglio di Gualtieri (68 sculture, 60 disegni e 32 incisioni) e il palazzo Magnani di Reggio Emilia (110 dipinti e - da non perdere - un video del film del 1961).

Come per altri artisti famosi - ed è facile il paragone con Van Gogh per i colori accesi, l'intenso espressionismo, l'ossessione degli autoritratti, le crisi maniaco-depressive e i ripetuti ricoveri in ospedale psichiatrico - anche per Antonio Ligabue arte e vita coincidono: è difficile separare infatti il suo volto, i suoi gesti, il suo comportamento dalle opere; tutto in lui esprime una visione epica e tragica della realtà, un'aggressività repressa, un senso della vita come lotta contro un destino che non dà tregua e che costringe a una scelta: vincere o essere vinti.

DALLE ALPI SVIZZERE ALLE TERRE DEL PO

Impossibile dunque separare l'opera di Ligabue da quel romanzo, unico e irripetibile, che è stato la sua vita; e che sembra scritto apposta per essere ambientato in queste terre basse, attraversate dal Po, dove egli giunse ventenne nel 1919 dalla nativa Zurigo, borbottando uno stretto tedesco e trascinandosi dietro il fardello di un disagio esistenziale, derivato dalla mancanza di una vera famiglia.

E siamo in Emilia, anni Venti. Il rombo inatteso di una moto rompe il silenzio e alza una nuvola bianca nell'assolata distesa che degrada verso gli argini del Po: è lui, il "Toni" (così lo chiamano affettuosamente i contadini della bassa) a cavalcioni della sua Guzzi rossa: sulle spalle si è legato con lo spago l'ultimo dipinto ancora fresco, da vendere in cambio di cibo. Ambulante dell'arte, uomo-sandwich, "straniero in terra straniera", trapiantato come una vite dalle Alpi svizzere alle nostre pianure.

E proprio come fa la vite, Ligabue trova qui, a Gualtieri (non lontano dai "luoghi" di Giovanni Guareschi) una terra buona dove crescere: lavora come scarriolante agli argini del Po (ma, afflitto da rachitismo, è goffo e spesso ruzzola a terra, divertendo volutamente i compagni); e poi come artista, accolto dalla brava gente di campagna; in ciò ancora simile a Van Gogh, che iniziò la sua carriera artistica tra i suoi "mangiatori di patate". E proprio come fa la vite, Antonio Ligabue mastica addirittura quella terra, in senso letterale, come un rito, prima di plasmarla con le sue mani: terra argillosa e finissima macinata dalle piene del Po e che sembra lasciata lì sull'argine, apposta per lui. In quell'argilla Ligabue modella i suoi animali, figure di terracotta grandi come un braccio e che riproducono con mirabile sintesi lo scatto felino di tigri e leoni; oppure la placida quiete di animali da cortile: capre, cavalli e cani. Essiccate al sole, quelle opere finiscono come soprammobili sui comò e sulle credenze delle case contadine; e "Toni" riceve in cambio un piatto di minestra.

Un mercante d'arte dal fiuto giusto ha recuperato di cascina in cascina queste sculture, che oggi possiamo ammirare nella mostra di Gualtieri; insieme a bronzi, disegni e incisioni che dimostrano come Ligabue - lo straniero dell'arte - non fosse in realtà un artista improvvisato: l'arte era l'unica sua risorsa, l'unico suo talento e, fin da bambino, il disegno l'unica attività in cui riusciva a scuola.

DIPINGEVA SULLE NOTE DI BEETHOVEN

Non bisogna poi pensare a Ligabue come a un rozzo e primitivo: aveva imparato la tecnica a olio dal pittore Marino Mazzacurati, possedeva una discreta collezione di libri, frequentava i Civici musei di Reggio e, dipingendo, ascoltava la Quinta sinfonia di Beethoven.
L'arte per Ligabue era una questione seria, un rito da compiere dopo una preparazione "speciale", una specie di training. Raccontano che emettesse suoni gutturali in dialetto tedesco-emiliano per immedesimarsi nel soggetto e forse anche per esorcizzare un po' la paura che gli incutevano certi animali feroci. Poi, nel gesto artistico, diventava lui stesso il leone che lancia il suo urlo nella foresta prima di ingoiare il serpente. Senza finire come quell'uomo che è già uno scheletro aggredito dalle termiti e soffocato dall'erba.

Tutta la natura è percorsa da un brivido e sull'orizzonte le antilopi scappano. Come Ligabue in perenne corsa. Nel 1963, due anni prima di morire, volle ricevere - lui che di origine era protestante - il battesimo e gli altri sacramenti della Chiesa cattolica. Dicendo: "Suntia 'na bestia me?".