Famiglia Cristiana n° 42 - ottobre 2009
SPECIALE ARTE
EDWARD HOPPER UN ASCETA A NEW YORK
L'artista americano apriva ogni giorno il suo obiettivo su luoghi abitati da un'umanità sospesa in un'immobilità solo apparente, che dà spazio alla riflessione sul senso.
Capire un artista, un pittore, un poeta o un musicista significa capire meglio noi stessi e la nostra umana realtà. Nella misura naturalmente in cui questo uomo sia grande e parli un linguaggio comprensibile a tutti. Questo si può dire senza ombra di dubbio per Edward Hopper, artista americano nato nel 1882 a Nyack, nello stato di New York. Iniziò la sua carriera come illustratore e, dopo alcuni soggiorni in Europa tra il 1906 e il 1910 (Parigi, Londra, Amsterdam, Berlino, Bruxelles, Spagna) in cui venne a contatto soprattutto con l'impressionismo, si stabilì definitivamente a New York, città che lo vedrà protagonista di una lunga e prolifica carriera. Muore ottantacinquenne nel suo studio-abitazione di Washington Square dopo un'esistenza che abbraccia la storia dell'America moderna: i ruggenti Anni Venti, il crollo di Wall Street, la grande depressione, l'assassino dei Kennedy e la guerra del Vietnam. In tutto ciò Edward Hopper, come un monaco dell'arte, rimase essenzialmente fedele a sé stesso e alla sua vocazione di pittore della classe media americana (la mid-dle class): un pittore figurativo, lontano dall'espressionismo astratto di Jackson Pollock e dalla pop art di Andy Warhol.
Asceta dell'arte nella città più caotica del mondo, come un fotografo Hopper apriva ogni giorno il suo obiettivo interiore e morale sul silenzio di luoghi illuminati da una luce reale eppure metafisica, abitati da un'umanità viva eppure rarefatta, sospesa in un'immobilità solo apparente che dà spazio all'interiorità e alla riflessione sul senso della vita, del tempo e delle cose. Così Hopper trasforma New York, la città che ha nelle vene il sangue del mondo, in una città vuota: una strada all'alba con le saracinesche abbassate; l'interno di un bar notturno con pochi avventori; la stanza di un anonimo motel lungo le grandi arterie americane dove si parte e si arriva, e dove una donna sola attende con le valigie l'alba; una periferia urbana ai margini di un bosco dove un uomo finisce il suo lavoro alla pompa di benzina, nella luce irreale di un tramonto che accende l'erba sul ciglio della strada.
I quadri di Hopper sono uno sguardo sulla condizione umana. Il loro silenzio parla da sé. Qualcuno ha paragonato l'artista americano a Giorgio De Chirico, ma Hopper non è pittore metafisico, non pesca nel mito greco, ma fa parlare la realtà immergendola in una luce sospesa, ma naturale, appresa dagli impressionisti francesi. Trasformando i tetti di una città visti dall'alto, una casa lungo il terrapieno di una ferrovia, l'interno di un ufficio, di una carrozza ferroviaria o di un salotto domestico in quinte di una commedia umana che, nella sua apparente normalità, può essere inquietante come un film di Alfred Hitchcock (Psycho, La finestra sul cortile). Non a caso Hopper ha influenzato con i suoi "tagli pittorici" e la sua ottica poetica vari registi come Wim Wenders e Dario Argento.
La mostra milanese (che si trasferirà a Roma e poi a Losanna) ripercorre in sette sezioni gli autoritratti, i bellissimi studi di mani, le opere della formazione di Hopper come illustratore, gli anni parigini, le incisioni, i paesaggi, i grandi capolavori tra cui le case illuminate dal sole di Cape Cod dove l'artista villeggiava d'estate con la moglie Josephine, detta Jo, sua unica modella e anche lei pittrice ("dipingo quello che non dipinge mio marito", diceva). è nei disegni preparatori e nelle incisioni che si scoprirà, come in una radiografia, il segreto di Hopper, il suo insistere su pochi medesimi soggetti eseguiti a matita - la sua preferita era la Conté crayon che gli permetteva ombre e sfumature - per arrivare a quell'essenzialità e semplicità che é propria dei grandi artisti.
Le 160 opere esposte a Milano sono state selezionate tra le oltre 3000 che il Whitney Museum di New York (che nel 1950 aveva dedicato all'artista vivente la prima "personale") raccolse nel 1968 alla morte della moglie Jo. Completano la mostra milanese le fotografie di Hopper al lavoro e con la moglie a Cape Elizabeth, nel Maine (dove i coniugi Hopper passavano le vacanze estive) e una rassegna di immagini dei principali avvenimenti della vita pubblica e sociale dell'America di quegli anni.
EDWARD HOPPER
Milano - Palazzo Reale
15 ottobre - 24 gennaio 2010
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