Famiglia Cristiana n° 49 - dicembre 2007

ALLE PORTE DI TORINO LA REGGIA DI VENARIA RITROVA IL SUO ANTICO FASCINO

DUE PASSI NELLA GALLERIA DEI RE

Dopo dieci anni di restauri si festeggia con una grande mostra che celebra la dinastia sabauda. Mentre ci si prepara, tra revisionisimi storici, a celebrare nel 2011 i 150 anni dall'Unità d'Italia.

Se la campagna veneta è caratterizzata dalle splendide ville del Brenta (che dicono la vocazione nobile della Serenissima) e quella milanese è segnata dalle umili abbazie benedettine (che segnalano la vocazione lombarda all'ora et labora), Torino si circondò di regge e castelli. Una vera e propria "Corona di delizie": residenze regali che rivelano la vocazione dei Savoia a controllare politicamente ed economicamente il territorio intorno alla città, divenuta poi capitale del Regno d'Italia per solo tre anni, dal 1861 al 1864.
E poiché nel 2011 si celebreranno i 150 anni dell'unità d'Italia, per prepararsi all'importante ricorrenza Torino sta rinnovando l'immagine dei luoghi-simbolo del potere sabaudo. Tra le sfarzose dimore di campagna dove la corte si dedicava alla caccia e ai piaceri della vita (ma anche alla diplomazia e alla politica), la reggia di Venaria Reale è certamente la più rappresentativa.

Era diventata un eliporto

Un gioiello barocco che però, dopo due secoli di splendori (il Sei-Settecento) decadde con l'occupazione napoleonica e per tutto l'Otto-Novecento. Trasformandosi via via in caserma, scuderia, eliporto. Tanto che in anni recenti si pensò persino di raderla al suolo.
Grazie a un investimento pubblico di 260 milioni di euro e a un enorme, laborioso cantiere, Venaria ha rialzato la testa e in appena 10 anni, come l'araba fenice, è risorta dalle sue ceneri rinnovando il sogno di una "Versailles" alle porte di Torino. Ora può tornare a paragonarsi alle altre "perle" che circondano la città: i castelli di Racconigi, Rivoli e Moncalieri; la villa della Regina e il castello del Valentino in città; ma soprattutto la palazzina di caccia di Stupinigi, capolavoro assoluto di Filippo Juvarra, anch'essa da poco riportata agli antichi splendori.
Il "cuore" di Venaria è certamente la Galleria Grande, geniale invenzione barocca dello stesso Filippo Juvarra, architetto siciliano di fama internazionale che disegnò i volumi di questa sontuosa "galleria delle feste", che prende luce da due lati - ovest e est - così da catturare la luce dell'alba e del tramonto.
Dello stesso architetto è la chiesa di palazzo, dedicata al patrono della caccia, sant'Uberto, il cacciatore che si convertì alla visione di un crocefisso intrecciato nelle corna di un cervo; la grandiosa coreografia barocca dell'edificio ricorda la basilica di Superga, altro capolavoro di Juvarra.
La visita a Venaria Reale si estende per un chilometro e mezzo di percorso su due piani attraverso le immense scuderie, la Citroniére (la serra dei limoni e degli aranci), le grandi stanze regie; per sbucare poi sui giardini all'italiana che si aprono con largo respiro ai monti e alla campagna. In fondo alla prospettiva del canale si raggiunge il Parco Regionale La Mandria, dove si allevano cavalli di razza e ha sede un importante centro di restauro attivo da due anni.

A naso in su nel salone di Diana

E proprio grazie all'attività di questo centro è stato possibile far rivivere le immense quadrerie del Salone di Diana, recuperando (grazie anche ad alcune restitutizioni) 17 delle 20 tele originarie che illustrano i diversi tipi di caccia che si praticavano a Venaria nel Settecento. Dopo due secoli di furti e abbandoni infatti, la grande mostra "La Reggia di Venaria e i Savoia. Arte, magnificenza e storia di una corte europea" (aperta fino al 30 marzo) è coincisa con l'apertura al pubblico della Reggia e ha ripopolato le sue stanze con quadri, suppellettili e importanti testimonianze storiche.

Celebrare l'antica dinastia sabauda

L'intento celebrativo dei Savoia è chiaro. La loro smania di competere con la grandeur dei regnanti francesi - con cui si imparentarono lungo i secoli - domina la coreografia di Venaria e le sue atmosfere. Il percorso, rigorosamente storico, riserva però qualche sorpresa "positiva" su questa dinastia tanto discussa. Innanzitutto dimostra come prima del ramo cadetto dei Carignagno - meno nobile e più borghese (quello del risorgimento, delle guerre coloniali, delle leggi razziali, dell'esilio, della cronaca e del gossip odierno) - i Savoia fossero una delle più longeve e nobili dinastie europee, risalenti addirittura all'anno Mille con Umberto I Biancamano, imparentato con i principi di Sassonia, e quindi legato al Sacro romano impero.
I Savoia, come tutti i re della terra, oltre a una giustificazione dinastica ne cercarono sempre anche una religiosa. Nei sotterranei della Citroniére troviamo i "ritratti ipotetici" dei loro antentati, idealizzati nel Seicento da pittori di corte: tele di una fantasiosa caricaturalità che fa sorridere. Sono invece storicamente e fisiognomicamente ineccepibili (e un contributo prezioso alla storia del costume) i ritratti regali firmati da grandi artisti, come il prorompente ritratto equestre del principe Tomaso di Savoia Carignano di Antonio Van Dick. Per l'aspetto religioso oltre alla galleria dei 16 martiri tebani con i fregi degli ordini cavallereschi dei Savoia (tra cui quello di san Maurizio, protettore della dinastia) spicca la preziosa cassetta d'argento in cui si trovava la Sacra Sindone quando divampò l'incendio del 1997 a Torino e il prezioso Lino - di antica proprietà dei Savoia - si salvò per quello che parve un vero miracolo.
Dai sotterranei passiamo al piano superiore, dove ci troviamo immersi nella fantastica luce della Grande Galleria di Filippo Juvarra. Non è difficile immaginare qui, sulla magica scacchiera del suo pavimento di marmo bianco e nero, muoversi dame e principi tra un fruscio di sete. Chiacchierando e magari complottando di politica, lontani dagli occhi indiscreti dei loro concittadini. Ma sorvegliati dal Principe che da un piccola finestra affacciata

Autunno tempo di caccia

Certo è che tutti, nella Galleria Grande, godevano in quei radiosi pomeriggi autunnali, magari dopo una battuta di caccia, della magica luce che ora avvolge anche noi che abbiamo il privilegio di percorrerla affascinati.
Autunno, tempo di caccia. E la caccia, come racconta lo storico Andrea Merlotti, "era una metafora della guerra e un rito che si ripeteve tre volte alla settimana, da metà settembre al giorno dell'Immacolata; in una coreografia da sogno che coinvolgeva un "equipaggio" di circa 200 persone tra principi, cacciatori, nobili, scudieri, servitori, addetti ai cani e ai cavalli. La mattina presto si sceglieva un unico bersaglio, un cervo maschio, ci si sparpagliava nella boscaglia, poi al suono dei corni ci si radunava intorno alla vittima, aizzata dai cani, per finirla con un grosso spadone".
Tutto ciò durò fino a Napoleone e dopo l'esilio (1798) sarà Vittorio Emanuele II a riprendere nell'Ottocento la tradizione venatoria dei Savoia; non qui a Venaria ma più su, verso le nevi eterne del Gran Paradiso, a cacciare col fucile gli stambecchi, i cervi; e l'aquila reale.