08 gennaio 2024
Miró ribelle per amore: la “conversione” alla realtà di un pittore surrealista
Scrive il grande poeta inglese Thomas Eliot: “L’uomo non sopporta troppa realtà”. L’universo pittorico di Joan Mirò (1893-1983) – l’artista catalano di cui quest’anno Torino, con la mostra “Omaggio a Mirò” (aperta fino al 14 gennaio) celebra il quarantennio dalla morte – ha sperimentato la realtà attraverso tutti i registri dell’arte del suo tempo, andando anche oltre. Insieme a Picasso e Dalì, due grandi artisti catalani, Mirò è stato un grande maestro del surrealismo, non solo, ma ha anche subito l’influsso della pittura metafisica di De Chirico. Tutto ciò avviene nella Parigi degli anni Venti e Trenta, in quel magico luogo d’elezione per artisti che fu la collina di Montmartre. Mirò, nativo di Barcellona, in fuga dalla guerra civile spagnola, aderì con entusiasmo a quei movimenti, ma poi cercherà altre vie, altre rotte personalissime, creando un suo universo poetico irripetibile, fatto di creature fantastiche, antropomorfe, a metà tra il mondo animale e vegetale. Ad esso concorreranno elementi cosmici come la luna e le stelle, sagome informi di amebe fluttuanti in un liquido amniotico, creature monocellulari dalle lunghe ciglia, segni primitivi che sembrano appartenere a un alfabeto rupestre, forme primordiali fondate sui colori primari giallo, rosso, blu, circondate come vetrate dalla sua caratteristica pennellata nera.
A tenere insieme tutti questi elementi, all’apparenza dissonanti, è una visione poetica e musicale della realtà. Fonte d’ispirazione di Mirò infatti è la poesia immaginifica degli spagnoli Rafael Alberti e Garcia Lorca e quella surrealista dei francesi André Breton e Paul Eluard. Poi la musica di Mozart e Bach, che l’artista ascoltava mentre dipingeva in modo libero e spontaneo, quasi in uno stato di trance, come si dice avvenga per la cosiddetta scrittura automatica. Ma Mirò molto più prosaicamente, nelle lunghe notti insonni passate al cavalletto, chiuso nel suo piccolo studio di Montmartre, diceva che erano solo la povertà e la fame – quella fisica – a guidarlo.
Le origini catalane di Mirò lo legano non solo a Picasso e Dalì, ma soprattutto al geniale architetto Antonio Gaudì (1852-1926), nativo di Barcellona, più anziano di lui di una quarantina d’anni e che Mirò ammirava moltissimo. Chi avesse l’opportunità di passeggiare nel capoluogo catalano, tra le sculture a mosaico del parco Guell, disegnate da Gaudì, o sui tetti di casa Battlò, tra i celebri coloratissimi camini decorati a mosaico dallo stesso Gaudì, scoprirà che queste figure anticipano le fantastiche creature di Mirò. Esse evocano elementi della natura che non esistono nella realtà, ma che sono ancora più affascinanti della natura stessa. Altrettanto si può dire della Sagrada Familia di Gaudì, con i suoi capitelli floreali e le nervature delle volte che sembrano le corone ramificate degli alberi. La natura è la grande fonte ispiratrice che accomuna i due artisti catalani. E Mirò, che oltre ad essere pittore fu anche ceramista e scultore, scrive nel 1944: “Voglio che le mie sculture si confondano con gli elementi della natura, alberi, rocce, radici, montagne, piante, fiori”.
“Gli uomini non sopportano troppa realtà”, ci ricorda Eliot. Anche l’esperienza del surrealismo, che dovrebbe andare “oltre la realtà” non basta a Mirò, che a Parigi passa attraverso tutte le esperienze e i movimenti artistici del secolo – fauvismo, cubismo, surrealismo, dadaismo, metafisica, informale. Su questa scia realizza autentici capolavori ma sente però la sua arte che deve andare oltre. E se al Salone espositivo parigino del 1937, (in polemica con la guerra, quella civile che imperversa in Spagna, e il conflitto tra Francia e Germania), Mirò ha il privilegio di esporre accanto alla grande tela “Guernica” di Picasso il suo murales “Contadino catalano in rivolta”, andato poi perduto. Ma tutto ciò non gli basta. Mirò morde il freno, vuole – sono le sue stesse parole – “assassinare l’arte”. Parole strane, inquietanti per un uomo all’apparenza tranquillo.
E sarà proprio lo spirito catalano, contadino e concreto, legato alla natura e ai suoi ritmi, a far superare a Mirò cubismo e surrealismo per andare più a fondo nella sua ricerca spirituale nei territori dell’inconscio e del sogno. Così si stacca da ogni corrente artistica e trova una via di uscita nella realtà pura e semplice del collage, assembla oggetti come una piuma, un chiodo, uno spillo, uno spago, un pezzo di carta o di linoleum, composizioni che evocano presenze astratte, simboliche come le sue ballerine. Attraverso la tecnica del collage Mirò scompone così il mondo in elementi primordiali, inventa nuovi grafismi, alfabeti di una sua originalissima pittura.
E dopo gli anni parigini è nell’incontro con il bernese Paul Klee (anche se i due non si sono mai visti di persona) che l’arte di Mirò trova ordine, si ricompone secondo una grammatica, una tessitura, potremmo dire un rigore che diventano accordo, metrica, musica, poesia. Scrive: “Quello con Paul Klee è stato un incontro determinante nella mia vita. Sotto la sua influenza la mia pittura si è liberata da ogni vincolo terreno”.
La poesia e la letteratura sono fonte di ispirazione per Mirò e una possibile chiave di lettura delle sue opere. Così la serie di “Costellazioni”, dipinta tra il 1940 e il 1950, riecheggia i versi del poeta andaluso Garcia Lorca: “Guardo le stelle sul mare. / Oh, le stelle sono d’acqua, gocce d’acqua. / Guardo le stelle sul mio cuore. / Le stelle sono di aroma! Grani d’aroma. / Guardo la terra piena d’ombra”. All’origine dell’interesse di Mirò per le stelle il telescopio paterno e lo studio dell’astronomia. Opere come “La scala della fuga”, “Risveglio all’alba”, “L’uccello meraviglioso rivela l’ignoto a una coppia di amanti” si popolano di creature oniriche, figure femminili, uccelli, mezzelune e stelle che convivono con elementi astratti e di sogno, strane creature tenute insieme da una pittura che, come per magia, ritorna alla natura in senso spirituale, come i disegni primitivi delle grotte di Lascaux. Scrive Mirò: “Sentivo un profondo desiderio di evasione. Mi rinchiudevo liberamente in me stesso. La notte, la musica e le stelle cominciarono ad avere una parte sempre più importante nei miei quadri”. Mirò scopre un’arte che lo porta a scendere nel profondo di sé stesso, del proprio io, per trovare la libertà interiore. Nel 1930 così si esprime su di lui lo scultore italiano Alberto Giacometti: “Per me Miró è grande libertà. Qualcosa di più aereo, sciolto e leggero di tutto ciò che ho potuto vedere finora. È assolutamente perfetto”.
Mirò è stato un “ribelle per amore” che ha avuto il coraggio di andare contro a tutta l’arte del suo tempo con una volontà distruttiva, una forza di ribellione che si è trasformata in un atto d’amore. Ma non dobbiamo immaginarlo un violento. Anzi. La sua ribellione non è stata contro nessuno ma solo contro sé stesso e il frutto di questa ribellione è stato quello di un’arte nuova – la sua – passata nel crogiuolo, purificata e che ci raggiunge oggi anche attraverso l’opera grafica. Tra i suoi manifesti, famoso quello che realizza a novant’anni per il Campionato mondiale di calcio del 1982, e ha segnato la vittoria dell’Italia. La modernità del segno di Mirò, le forme, i colori, le sue conquiste estetiche informano la pubblicità, la cartellonistica ed entrano a far parte della nostra vita di tutti i giorni. Quando un artista è grande cresce con il tempo e la sua eredità diventa per tutti gli uomini. Nel pieno possesso della realtà.