L'Ossevatore Romano - 14 novembre 2009
FERMO IMMAGINE
A Palazzo Reale a Milano una grande mostra dedicata alla scoperta di Edward Hopper
"Se potessi esprimerlo con le parole non ci sarebbe nessuna ragione per dipingerlo". Parola d'artista. Nel segno del ragionevole e dell'essenziale. Sotto questo segno possiamo leggere la grande mostra Edward Hopper aperta a Milano a Palazzo Reale fino al 31 gennaio (si trasferirà poi a Roma dal 16 febbraio al 13 giugno 2010). Si tratta della prima monografica in Italia su un artista che è considerato forse il più grande pittore realista americano del Novecento. E che, come tutti i grandi artisti, ha cercato con la sua opera di dirci una sola semplice cosa: la verità della luce che batte sugli uomini e le cose e ce ne rivela la condizione di finitezza e attesa.
L'altro elemento che caratterizza l'arte di Hopper è il tempo. Ogni suo quadro è il fermo immagine di una sequenza cinematografica di cui non esiste il fotogramma precedente né il successivo. Ci troviamo immersi in quell'attimo di stupore e insieme di sperdutezza, di complicità e di lontananza. Ci sentiamo interrogati sul nostro io e sul suo destino: Hopper non concede risposte, solo sa porre bene la domanda che è quella che sorge in lui e nella middle class al tramonto del grande sogno americano. Una domanda di senso posta da un'eremita laico della pittura.
Hopper è pittore della luce, dell'architettura e del paesaggio umano. Illustratore e grafico per mestiere, artista per vocazione. Nato nel 1882 a Nyack e morto nel 1968 a New York, con la sua lunga vita attraversò tutta la scena americana di cui interpretò lo spirito con un'arte fedele a se stessa che voltava le spalle tanto all'espressionismo astratto di Jack Pollock quanto alla pop art di Andy Warhol. Pure Hopper, apparentemente realista e pragmatico, nascondeva un enigma. Qual è il segreto della sua pittura che alcuni considerano metafisica e surreale? Qualcuno lo ha paragonato a Giorgio De Chirico; ma Hopper seppe essere al tempo stesso concretissimo e metafisico; per scoprire il limite e la contraddizione sapeva che gli bastava guardare la realtà da quel particolare punto di vista che é la pittura, sfuocare alcuni particolari, metterne in rilievo altri. Piccoli spostamenti di camera, da grande regista dell'inquadratura pittorica quale era, creando prospettive improbabili e inquietanti come i contemporanei film di Alfred Hitchcock.
Hopper dipinge l'angustia della condizione umana nei suoi momenti di silenzio e vuoto: in un motel o un drugstore, in una stanza d'albergo o in un ufficio, alla luce dell'aurora o del tramonto, al mattino quando i negozi sono vuoti, o di notte quando indugiano rarefatte presenze nei bar o negli uffici. I personaggi hopperiani, protagonisti della commedia umana americana, sono sospesi in un tempo rarefatto. Tra i profili femminili domina in filigrana unica modella la moglie Josephine Verstille Nivison (1883-1988).
Ma non é la presenza umana o la sua assenza - quando il quadro si limita a rappresentare il luogo -
a dominare la scena hopperiana. Se la figura umana è ridotta all'essenziale, quasi sgraziata per renderne universale il dramma - protagonista è quell"ora squisita "di luce (Paul Verlain) che batte sulle bianche facciate delle case predilette da Hopper alla periferia newyorkese o nel New England, neogotiche e neoclassiche, coi tetti a spioventi e mansardati, i mensoloni sporgenti e gli ampi patii; affacciate sull'oceano Atlantico dal Maine a Cape Code dove l'artista trascorreva lunghissime vacanze con la moglie a dipingerle insieme a fari e pescherecci in una serie straordinaria di acquarelli esposti in mostra. All'uso di questa tecnica lo spinse la moglie anche lei pittrice che lo seguiva annotando il giorno e l'ora dei suoi lavori, i materiali usati e persino i negozi in cui li aveva acquistati. Retaggio del precedente mestiere di grafico illustratore del marito.
Hopper fu "genio insieme a Vermeer e Rembrandt delle finestre guardate da dentro e da fuori intese sia come veicolo di libertà che come sentimento di nostalgia dall'interno" (James Hillman). E se influenzò e si lasciò influenzare dai primi film noir e dalle loro atmosfere sospese (vedi Finestra sul cortile di Hitchkok) ci si può chiedere: perché guardare al di là del vetro nella finestra del vicino? Non é voyerismo ma lo stesso bisogno per cui si va al cinema: sfuggire dal buio della propria vita, entrare in vite parallele alla nostra. Per questo Hopper rappresenta figure femminili molto simili a quelle del pittore francese che amava più di tutti, Edgard Degas, colte in interni privati o pubblici come teatri o cinematografi.
Là si svolgeva quella vita moderna di cui Hopper era illustratore e testimone, come la splendida tela monocroma con l'automobile in corsa che affianca la locomotiva (1922),. Illustratore e interprete della nascente civiltà dell'immagine che si affermava per prima in America col cinema e la carta stampata per migrare poi da noi. E giustamente, nel 1956, il settimanale illustrato Time premierà Hopper dedicandogli la copertina.
La mostra milanese, pur mancando dei suoi quadri-manifesto più noti come Nightawaks del 1942 o Gas del 1940 (pochi avventori in un bar notturno o l'ultimo minuto di lavoro di un benzinaio in una periferia) ha il pregio di portarci dentro il suo metodo: lavorava sul soggetto in esterno con una serie di disegni preparatori che poi elaborava in studio secondo l'idea che aveva nella mente.
Alla fine del percorso espositivo - grazie a un'installazione - possiamo entrare fisicamente in un quadro di Hopper e diventarne protagonisti. Si tratta della riproduzione in legno in scala reale della stanza di Morning sun del 1952, opera esposta nella sala accanto. Ci accomodiamo al posto della donna che guarda fuori dalla finestra la luce mattutina venire dall'orizzonte e illuminare uno scorcio rosso di fabbrica; poi entrare e illuminare il letto e la parete laterale; la luce puntata su di noi é la stessa del quadro; grazie a un sistema di ripresa a circuito interno veniamo proiettati su uno schermo perfettamente inseriti nel quadro e così ci vedono i turisti che passano nel cortile di Palazzo Reale.
Al di là dell'aspetto esteriore, in questa installazione del tedesco Gustave Deutsch c'é tutto il senso della poetica di Hopper. Ci troviamo infatti immersi nella stessa luce di quel mattino di venerdì 29 agosto 1952 annotato scrupolosamente nel Taccuino del pittore così come faceva per tutti i suoi quadri. Quella luce che batteva sugli stipiti e si proiettava sul muro dietro la ragazza ora gioca con noi. Sfonda la nostra stanza con una finestra virtuale. E là dove l'avvenimento della pittura si compiva per Hopper oggi riaccade per in quella nella macchina del tempo che é l'arte. Torniamo alla tela di Hopper e scopriamo che il tempo da cronologico si fa spirituale. Da kronos diventa kairos come in un vangelo laico. Come in quell'ora annotata dai primi discepoli che videro Gesù sul Giordano: erano circa le quattro del pomeriggio. (Giovanni 1.39)
Ecco, la pittura di Hopper è una rivelazione. Rivelazione laica, naturalmente. Rivelazione di un disagio interiore. Disagio del vivere e ricerca della luce giusta. "Voglio solo dipingere la luce che batte sul muro" insisteva. Come in Sun in the Empty Room, coraggiosissimo quadro del 1963 che chiude la mostra, pura astrazione che nella materia pittorica ricorda De Chirico e Morandi. Non ci sono personaggi. La luce apre finestre nel muro, la luce sgretola il muro. Vengono in mente l'occhio di profilo della donna di Morning sun: un segno nero senza pupille; difficile pensare a una dimenticanza. Piuttosto come certi "non finiti" dei grandi artisti è un messaggio da decifrare: ciò che conta non si vede con gli occhi. Quasi una teologia della luce interiore. La verità é dentro le cose. A Hopper basta mostraci un muro illuminato. La verità del quadro é nello sguardo di chi lo osserva. Hopper si fa metafisico senza darcelo ad intendere. Rivelandoci pian piano col silenzio della sua pittura l'indicibile enigma.