L'Osservatore Romano - 06 settembre 2010
I CHIARISTI E IL FERMENTO CULTURALE NELLA MILANO DEGLI ANNI TRENTA
UN MONDO DI MADREPERLA DIPINTO COL RESPIRO
Con tutti i necessari distinguo potremmo dire che, in qualche modo, la Milano degli anni Trenta - con un ritardo di cinquant'anni anni rispetto all'impressionismo parigino -, ha avuto una sua particolare stagione pittorica caratterizzata da colori puri, da toni chiari e luminosi, da forme leggere. Una stagione breve ma accesa, quasi un neo-impressionismo romantico: il Chiarismo. A questo periodo e ai suoi giovani protagonisti è dedicata la mostra I chiaristi. Omaggio a De Rocchi (Milano, Palazzo Reale, catalogo Skira). Il Chiarismo non fu un vero e proprio movimento ma colse lo spirito di quel periodo tra le due guerre ("Il mondo pare essere casa che crolla e gli uomini gl'inquilini che fuggono al crollo" scrive Renato Birolli nel '35) condensando intorno a sé la miglior temperie culturale di quegli anni, rappresentata da poeti letterati e critici come Sergio Solmi, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni. Artisti e poeti che insegnano a Brera e frequentano i caffè milanesi.
E' il critico napoletano Edoardo Persico a dare spazio per la prima volta nel 1930 a questo gruppo di pittori trentenni con una mostra alla galleria il Milione di Milano, esponendo le loro opere accanto a quelle di Manzù, Soldati, Fontana, Melotti, lo stesso Renato Birolli e un giovanissimo Aligi Sassu che per primo, tra le tante sue sperimentazioni, usa occasionalmente quella tecnica che poi verrà definitivamente battezzata "Chiarismo" da Guido Piovene in un articolo apparso sul Corriere della Sera nel 1939.
Per meglio capire questa pittura possiamo scomodare Eugenio Montale che in quegli anni risiedeva a Firenze: Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire / è dunque la ventura delle venture (Ossi di Seppia, 1925). Le opera dei Chiaristi - tra cui Del Bon, De Amicis, Lilloni, Spilimbergo e De Rocchi (a quest'ultimo è dedicata tutta la seconda parte della mostra di palazzo Reale) - sono caratterizzate da una pittura dai colori chiari, cangianti, quasi diafani, che avvolge i soggetti e rarefà i paesaggi; e da una tecnica che parte da una preparazione di fondo di colore bianco ancora fresco, su cui si lavora ottenendo risultati di luce atmosferica che dissolve i volumi nella luce.
Non fu un vero movimento ma una breve stagione che si differenzia dal movimento di Novecento (Sarfatti, Funi..) e dal Futurismo di Balla, Boccioni e Sironi (quest'ultimo amico di De Rocchi) per una pittura più lirica, dimessa, che sottolinea la lievità delle cose anziché la loro forza (si pensi alle macchine futuriste), la debolezza dell'uomo anziché la sua potenza (gli eroi di Sironi, gli antieroi di De Rocchi), la calma della contemplazione al posto della furia della velocità.
Il migliore esponente dei Chiaristi è senz'altro il varesino Francesco De Rocchi (Saronno 1902 - Milano 1978) - che, come scrisse Mario Tinti nel 1937, Alla poesia del crepuscolo ha sostituito quella dell'aurora Con i suoi bambini e adolescenti, le sue figure femminili, angeli senza ali e santi della quotidianità, le sue nature morte e i suoi luminosi paesaggi, De Rocchi dialoga in particolare con il mondo poetico di Solmi (abitano nello stesso condominio in via Fogazzaro a Milano), Sereni (passano le vacanze a Bocca di Magra), Quasimodo (frequenta il gruppo dei versiliesi) e Alfonso Gatto (insegna a Brera).
Se il gruppo dei chiaristi con la guerra si disperde De Rocchi, come un eremita, sfollato in montagna in Valsassina (Lecco) continua la sua pittura intrisa di luce fino a raggiungere nei paesaggi una sorprendente gioiosità aurorale. Il poeta salernitano Alfonso Gatto scriverà di lui: Un piccolo mondo di madreperla tirato col fiato. La pittura di De Rocchi viene apprezzata anche da un pittore religioso come Aldo Carpi che, tornato dai campi di concentramento, fu direttore di Brera dove De Rocchi, oltre a insegnare anatomia, imparerà ad amare Dante e Manzoni.
Le figure di De Rocchi esprimono un cammino, un'adolescenza spirituale, sono immerse in un'atmosfera luminosa in cui non si distingue il fondo dal corpo. Paesaggi e corpi e fondi risultano così della stessa materia pittorica - una luce atonale - come la musicalità dei versi di una stessa poesia trascolora e unisce ogni strofa. Pittura come poesia. La poesia del critico e poeta Sergio Solmi (un laico-devoto come si direbbe oggi) evoca l'atmosfera dei paesaggi di De Rocchi: …al volo che s'abbatte / delle pulci splendenti si corruga / questa vecchia cotenna della terra, / s'irrita il prato variopinto. Anch'io, / Sole, porto il tuo rosso emblema, m'hai / stampato dentro questa / luminosa fiorita insonnia d'erbe. (Prato, 1949).
De Rocchi porta "stampata dentro" quest'ansia dell'arte e della bellezza, che però stempera nella luce serena della fede, nella trasfigurata eternità delle sue figure, fino ad arrivare al limite dell'astratto e dell'informale. Dipingerà ad affresco il suo primo "angelo con le ali" nel 1943 per la villa dell'architetto Gio Ponti.cui seguiranno a olio varie Annunciazioni (anni '46-'58) che sembrano opere uscite dal pennello di Monet; oppure metafisiche nature morte che ricordano Morandi o De Pisis; così come affiorano calchi di Chagall, modiglioni, Renoir e Bonnard nell'opera questo pittore dal respiro veramente europeo.
Ma cosa conferisce alla pittura di De Rocchi un'identità propria, una sicura tenuta stilistica? Bisogna risalire agli anni della sua prima giovinezza dove si incantava davanti agli angeli di Gaudenzio Ferrari della volta del santuario della Beata Vergine dell'Immacolata nella nativa Saronno e alle storie di Bernardino Luini; e poi risalire al Masolino da Panicale di san Vittore Olona, al Simone Martini di Siena; confermando il suo legame con il medioevo cristiano e con la tenera luminosità della pittura lombarda scoperta da Giovanni Testori; e con il romanticismo del Piccio e la scapigliatura di Ranzoni, pittore convinto si dovesse "dipingere col fiato e non con il pennello".
De Rocchi dipinge a piccoli tocchi di colori secchi e minuti, un mosaico di frammenti giustapposti e aggrappati alla tavola di legno, supporto da lui prediletto. Pittura su tavola e non su tela. Superficie dura e compatta che ricorda i primi affreschi cristiani. E il significato ontologico del muro-verità sottolineato da Pavel Florenski (Le porte regali). Il bianco sta al posto dei fondi d'oro delle icone. Un bianco che rivela l'essenza delle cose, il loro tendere a un'altra luce, a un'epifania luminosa. Non il trionfo della luce di questo mondo, ma una luce che matura all'interno della forma fino a farla respirare. Corpi trasfigurati e sguardi che diventano ciò che guardano. De Rocchi, pittore cristiano e aurorale, non dipinge larve di crisalidi come altri chiaristi (in particolare Lilloni e Invernizzi) bensì figure umane che hanno già in sé una consistenza e una promessa di gloria. Infanzia spirituale. Primitivismo di una pittura anticlassica che guarda al medioevo e allo stupore di Giotto.