L'Osservatore Romano - 18 luglio 2012
DALL'OMBRA ALLA LUCE
Le celebrazioni per il centenario della nascita di William Congdon: una mostra lo ha ricordato a Venezia.
Con la mostra Uno sguardo americano (Ca' Foscari) Venezia celebra i cent'anni dalla nascita del pittore americano William Grosvenor Congdon (1912 Providence, Rhode Island - 1998 Milano). Dalla città verticale di New York, dove tra il 1948 e il 1950 esponeva con gli altri pittori dell'action paintig, il trentaseienne William compiva il suo primo viaggio in Italia nel 1948 trovando in Venezia, città orizzontale, un luce nuova per lui, una luce che viene da Oriente" (ex Oriente lux). Esperienza estetica che poi si tramutò in spirituale e suscitò in lui, battezzato nella Chiesa episcopale, una lenta conversione fino a portarlo, dieci anni dopo, ad "arrendersi" (sono le sue parole) alla Chiesa cattolica e ricevere il battesimo.
Dopo quel primo viaggio veneziano Bill Congdon tornerà nella città lagunare e vi risiederà tra il 1950 e il 1952 e poi tra il '57 e il '59; nel frattempo continuerà il suo percorso verso Oriente e verso il Sud del mondo, attratto dal fascino di Bagdad, dell'India con i suoi templi, del Sahara con le sue sabbie; poi l'Egitto, il Messico, il Guatemala e le antiche civiltà dell'America latina. Tracia di questi viaggi si trova nell'immagine-archetipo della chiesa-tempio del Redentore che si affaccia sul canale della Giudecca allo stesso modo i cui il Taj Mahal, tempio-simbolo dell'induismo, si affaccia e riflette nell'acqua dei giardini circostanti.
Il percorso artistico e spirituale di questo moderno cercatore di bellezza, che aveva come testo-guida le Confessioni di sant'Agostino, porterà nel 1951 Congdon a incontrare ad Assisi don Giovanni Rossi della Pro Civitate Christiana. Nove anni dopo quell'incontro, è il 29 agosto del 1959, Bill riceverà il battesimo. E poco tempo dopo accadrà per lui un altro incontro decisivo, quello con don Luigi Giussani.
Il percorso di conversione e di luce di questo artista americano era iniziato a Venezia, città dell'oro e del fascino della spiritualità bizantina. Bill Congdon non cerca la luce esteriore e il fulgore dell'oro ma l'ombra che rivela la luce, quella nube oscura e luminosissima di cui parlavano i Padri della Chiesa orientale, quella dottrina apofatica in cui la verità si dà per negazione e la luce brilla attraverso l'oscurità. Tutto ciò naturalmente Congdon scoprì attraverso la pittura e forse anche attraverso l'amicizia e il dialogo con il teologo ortodosso Olivier Clement (1981) e il filosofo Hans Urs von Balthasar conosciuto al Meeting di Rimini nel 1984. Nella sua ricerca artistica l'oggetto che Bill aveva davanti si identificava con se stesso, oggetto e dramma interiore coincidevano e, attraverso la scoperta di sé, del suo vero io, Cristo lo afferrava in fondo al buio, lo chiamava a sé.
Se la luce di Venezia era il trionfo dell'oro, Congdon cercava invece agostinianamente quella luce e quella bellezza che si trovano non fuori ma dentro di sé. Scrive: "Dipingo su nero perché il dipingere non è rappresentare una luce che c'è e basta ma piuttosto partecipare della luce che sta divenendo dal buio - e tu la segui fino al punto o qualità di luce che è quella che ti ha afferrato".
Quale città più di Venezia rappresenta la vita che nasce dalla morte? Nelle immagini esposte a Ca' Foscari la basilica di san Marco precipita nel buio e da lì Congdon fa scaturire una strada d'oro che percorre la piazza, mentre ai lati le Procuratorie sorgono come materia magmatica, lava oscura che il pittore incide e graffia con la punta metallica della sua spatola. La prospettiva di piazza san Marco diventa una camera ottica attraverso cui Congdon, come un vedutista del Settecento (il suo riferimento era Francesco Guardi) guarda e trasforma ciò che vede nel luogo do ve accade quel dramma che il cardinal Joseph Ratzinger in sua meditazione sul Sabato santo (Querinaina, Brescia, 1973) descrive "singolare intreccio di oscurità e di luce, di dolore e di speranza, di nascondimento e di presenza di Dio".
La pittura di Congdon nasce da questo singolare silenzio e negazione. Facendo e rifacendo lo stesso soggetto - la piazza - il pittore ritrova infine, al posto della basilica di san Marco l'immagine del Crocifisso, oggetto e punto d'arrivo del suo percorso. Croce e crocifisso si identificano: nel Crocifisso n.1 b del 1960 il corpo di Cristo è un panno candido, fradicio e strizzato, acqua di morte della laguna e fonte di vita di un battesimo che si ripete ogni volta nel gesto della pittura: action painting, fare poetico. Scrive Congdon: "L'incontro con Cristo dopo il 1959 mi fa scoprire che il suo dramma di croce è pure mio. E questo mi porta al Crocifisso tramite un ritorno alla figura, figura mai più da vedere o dipingere disgiunta dalla croce. Mi interessava non tanto la figura in sé ma la figura come croce, in ciò che la croce fa del corpo di Cristo".
La materia pittorica di Congdon, la sua tavolozza, si fa più scura nella misura in cui dentro di lui c'è finalmente quella luce che da Oriente lo aveva cercato e colpito. Dio fa così con chi ama: lo attrae attraverso la realtà. Dal seme di quel primo Crocifisso nascerà la lunga serie di crocifissi (oltre 185), che caratterizzeranno la sua successiva produzione.
Nei quadri esposti a Ca' Foscari ritroviamo le impronte delle tappe extraeuropee dell'artista: in particolare il ricordo del tempio-simbolo dell'induismo, il Taj Mahal affacciato sull'acqua, si rinnova nell'immagine della chiesa-tempio del Redentore affacciata sul canale della Giudecca. La luce che vibra sui profili delle Procuratorie poi è luce lunare che ricorda l'astro notturno che rotola sui profili delle colline nei quadri di Assisi. Lunare è anche il biancore dell'ostia, l'Eucarestia che l'artista riceve ogni giorno dalle mani dei monaci della comunità benedettina della Cascinazza, dove Bill Congdon vive e lavora dal 1979 al 1998, anno della sua morte. Siamo a due passi da Gudo Gambaredo (Buccinasco) dove vive don Luigi Giussani. I due si incontrano, dialogano, si scambiano riflessioni. Nel nascondimento di quegli ultimi vent'anni Bill approfondisce il suo rapporto con la campagna lombarda. Terra e cielo si identificano per lui, anzi il cielo è la terra secondo la fede cristiana fondata sul mistero dell'Incarnazione, un mistero su cui don Giussani insiste molto.
L'oggetto della pittura di Bill diventa la terra piatta, solcata da rogge e canali che attraversano i campi così come il campanile di san Marco attraversa la piazza. Il passaggio è evidente nel quadro Pioggia del maggio 1980: la barra obliqua che attraversa l'aria bagnata ricorda il campanile marciano, i filari degli alberi le Procuratorie. La gamma cromatica però è cambiata, il colore di Congdon è passato dal sontuoso oro bizantino al pacificante verdeacqua di questa terra intrisa di nebbie.
Così la luce che viene da Oriente e l'arte del pittore che viene dall'Occidente si incontrano e condensano in una luce che, anziché smaterializzarsi, si solidifica e si "cristifica".
Il corpo di Cristo diventa l'oggetto vero della pittura, lo stesso corpo di Congdon e della Chiesa. E Bill coniuga in sé l'ora et labora benedettino, facendo della sua pittura una "action" di preghiera.