Giorgio Morandi, Natura morta, 1955
Dall’immagine tesa
di Clemente Rebora
Ci sono poesie in cui in un verso viene detto tutto, come nel celebre “M’illumino d’immenso” di Giuseppe Ungaretti (1888-1970), un verso di sole sette sillabe, un settenario. Mi piace paragonare questo verso a un altro settenario – Dall’immagine tesa – che dà il titolo a una poesia di Clemente Rebora (1885-1957), il poeta milanese che dopo la conversione diventò sacerdote rosminiano. E, mentre per Ungaretti la grazia della rivelazione avviene quasi in una auto-riflessione (“m’illumino) qui, nel neoconvertito Rebora, c’è uno “spiare” l’immagine tesa con atteggiamento vigile e spoglio di qualsiasi pretesa.
Spiare cosa? Una “immagine tesa” che può essere qualsiasi cosa (vedi sopra il quadro di Giorgio Morandi), perché nel tutto ci può essere il niente e, per contro, nel tutto si può attendere qualcosa di molto importante che forse non si ha neppure diritto di pretendere. Solo, persiste questa “immagine tesa” che è dentro di noi come una domanda, una punta che perfora la quotidianità. Il poeta spia il campanello di casa – immagine-simbolo – ma sa di non attendere nessuno, pure gode di quel “polline di suono” (immagine splendida!) che ne esce – quasi fosse un fiore – … caro vecchio campanello di un tempo, rotondo, di ottone, con al centro il pulsante per aprire.
Aprire a nessuno, mentre il poeta se ne sta tra quelle quattro mura ad attendere, tra quelle quattro mura che pure si stupiscono e sanno stupirsi dello spazio intorno. Ma verrà, sboccerà il campanello, e quel “deve” venire si trasformerà in un grido “viene!”. È la fede che sa che è già venuto a ricordarcelo, altrimenti cosa aspetteremmo? Ma è la speranza a cantarcelo, è lei la tenera bambina che Charles Peguy dice essere più rara e preziosa delle sue due sorelle, la fede e la carità.
Verrà quando meno me lo aspetto, quando mi distraggo e cedo alla distrazione, il mio volerlo a tutti i costi. Altrimenti che dono sarebbe? Verrà “dall’immagine tesa” come per farsi perdonare di quanto ci ha fatto morire nell’attesa. Ma quel verbo “verrà” non ha un unico beneficiario, “verrà come ristoro delle mie e sue pene”. Dunque, si pena insieme – chi attende e chi è atteso – come l’amante e l’amato. Verrà a farmi certo in “un bisbiglio”, un sospiro, un sussurro, come il canto della sposa per lo sposo. Quel “polline di suono” verrà, non lo senti?
Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno.
Ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto.
Verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.